L’inconoscibile avvolgente
s’è avvitato, innestandosi,
sopra la moderna vetratura
piramidale fuori dalla finestra.
Filtra col sole l’inappropriato,
riflettendosi sugli aghi di pino.
Il mistero del singolo
camuffato, incomprensibile,
simile, per questo
agghiacciante, terribile,
lo sconosciuto nel nostro
petto proiettato all’esterno.
Non sappiamo difenderci
dall’individuo, ci assorbe
con la nebulosa visione,
ci spaventa anche quando
annidato tra i nostri piedi
si struscia affettuoso.
E dunque lo diluiamo,
per necessità lasciamo
che goccioli in provette,
nel prevedibile dell’impersonale,
nell’assenza del possibile,
come nullificazione del pericolo
e del timore d’essere,
inconsapevolmente.
Ci diluiamo in masse,
in sovrastrutture collettive
atte a normalizzare
l’inconcepita libertà
odiata, che fluisce nei
nostri denti come
rabbia incontenuta.
Rinunciamo all’identità
col problema per
amoreggiare con sintomi
destabilizzanti di un
aggregazionismo disperato,
del voler prender parte
al granello gustoso
dell’impartecipabile,
del non mio,
dell’approssimazione in
forme inaccettabili
per l’uomo ed
auspicabili per la
specie.
La scelta tra l’essere
qualcosa e l’essere
quantità, numero,
inumanità ammassata.
26/01/2018
– Andrea Pezzotta