Don’t wanna be an American idiot

Così si apre il brano American Idiot, singolo dei Green Day che dà il titolo anche all’album da cui proviene.
Pubblicato il 21 settembre 2004, questa traccia sintetizza ed esprime il dissenso di una parte significativa della società statunitense (e occidentale) verso la presidenza Bush (junior).

Premessa deontologica: questo è un articolo di parte.

Contesto storico

Settembre 2004: mancano due mesi alle presidenziali di novembre, che premieranno George W. Bush alle urne per il suo secondo e ultimo mandato.
La presidenza Bush nasce male e si sviluppa ancor peggio: le elezioni del novembre 2000 sono fra le più controverse dell’intera storia politica yankee. Vince per una manciata di voti e di Grandi Elettori, sconfiggendo il candidato democratico Al Gore e riconsegnando la Casa Bianca ai Repubblicani.
Il vicepresidente di Bush, Dick Cheney, recentemente oggetto di un film biografico interpretato da un mostruoso Christian Bale, assomiglia per certi aspetti a Goebbels: squalo politico dall’intelligenza sopraffina, responsabile di buona parte della campagna elettorale (insieme a Roger Stone, altro “genio del male” oggetto di un interessantissimo documentario prodotto da Netflix), sfrutta tutta la potenza di fuoco dei media statunitensi. La politica statunitense fa una decisa virata a destra dopo due mandati centristi e relativamente stabili da parte di Bill Clinton.
Il primo mandato di Bush vede il mondo distrarsi per i fatti del G8 di Genova nel luglio del 2001.
L’evento più significativo del secolo, fino a questo momento, sono sicuramente gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.
In poche ore, due aerei si schiantano contro il World Trade Center.
Le immagini fanno il giro del mondo. Muoiono più di 5000 persone. Gran parte dei problemi del mondo attuale provengono da quell’evento.
Le Torri Gemelle prendono fuoco, collassano, si dissolvono e formano le macerie dell’ormai defunto sogno americano.
Sessant’anni di politica estera statunitense si frantumano in poche ore.
Il vuoto e il trauma non sono sanabili: cosa farà il Presidente? Dov’è il Presidente? Come reagirà l’Occidente?
Per oltre un anno e mezzo, la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica statunitense e occidentale si stringe intorno alla persona più potente del mondo: George W. Bush, fino a venti anni prima un uomo oppresso dall’eredità paterna, solo, non molto intelligente e non preparato, deve gestire uno dei momenti più importanti e significativi della storia.

Saddam



Nasce la lista degli “stati canaglia”. Bush decide di parlare al mondo: o con noi o contro di noi.
Eravamo impreparati, adesso siamo tornati. Nessuno minaccerà il nostro stile di vita. Ci difenderemo e attaccheremo quando, dove e come riterremo necessario.
Gli Stati Uniti si preparano ad invadere l’Iraq, volendo portare a termine quanto fatto, dieci anni prima, da Bush senior.
Tony Blair, primo ministro britannico, appoggia la linea di politica estera di Bush.
Le piazze di tutto il mondo si riempiono: questa guerra è inutile, è una guerra imperialista, non si scambia il sangue per il petrolio.
Solo a Roma, una manifestazione di protesta raduna 3.000.000 di persone.
Tutto inutile: nel 2003 una vasta coalizione (alla salda guida statunitense) invade l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa e di proteggere il piccolo nucleo di talebani presenti nel suo stato.
La guerra effettiva giunge a una rapida conclusione: lo squilibrio delle forze in campo gioca tutto a favore degli Stati Uniti.
Saddam viene catturato, processato e impiccato.
La botola sotto ai suoi piedi si apre, il suo collo si rompe e insieme a esso il precario equilibrio mediorientale.
1-0 per Bush? Pazientate…

Torture, torture, torture

Si verrà a scoprire, a fatti compiuti, che dei prigionieri iracheni sono stati torturati.
Emblematica la foto, sintetizzante buona parte della gestione Bush.

Le torture e la repressione politica, silenziosa e non eclatante come in passato (Nixon e Reagan su tutti), sono giustificate dallo stato di guerra, che comporta poteri quasi illimitati al presidente.
I consensi crollano: Bush riesce a far irritare la Left statunitense impedendo i matrimoni omosessuali, esprimendo una posizione anti-abortista, varando il Patriot Act (un pacchetto di legge che permette al governo statunitense di invadere la privacy dei cittadini, ufficialmente per motivi di sicurezza).
Il secondo mandato Bush è una fotocopia sbiadita del primo. Passerà alla storia come uno dei presidenti meno amati dagli statunitensi. Parte del tracollo finanziario dell’ultimo trimestre 2007 e dell’inizio del 2008 è da imputare a lui, capace di varare ulteriori deregolamentazioni in ambito finanziario.
Nel novembre 2008, nel mezzo della tempesta, Barack Obama, democratico, sarà eletto presidente.


Welcome to a new kind of tension

American Idiot riassume tutto questo.
Nel brano dei Green Day, gruppo nato non casualmente a Berkeley, California, centro universitario motore del ’68, il cantante esprime in modo provocatorio il suo dissenso contro la nuova ventata di conservatorismo.

Spinto da un finto patriottismo (Don’t want a nation under the new mania/And can you hear the sound of hysteria?/The subliminal mind-fuck America), l’idiota americano sventola felice la bandiera a stelle e strisce.
L’idiota americano è il marine che crede nella sua nazione e dà la vita per gli interessi delle compagnie petrolifere.
L’idiota americano è attaccato alla televisione come un neonato è attaccato al capezzolo della sua nutrice.
L’idiota americano è anche George W. Bush.

Contro tutto ciò, i Green Day (e una parte significativa degli USA e dell’Occidente) decidono di esprimere il loro dissenso e, in modo molto provocatorio ma efficace, non si affaticano a tentare di spiegare ciò che per loro risulta palese (Television dreams of tomorrow/We’re not the ones who’re meant to follow/For that’s enough to argue).

Il cantante, notoriamente bisessuale, esprime tutto il proprio disprezzo per un mondo reazionario e conservatore, una parte molto radicata nel profondo Sud degli Stati Uniti (Well maybe I’m the faggot America/I’m not a part of a redneck agenda).


È nell’assolo della parte centrale della canzone che si convoglia tutta la nostalgia verso un decennio travagliato, sporco di sangue, precario, destinato a crollare con una crisi economica che ancora si sente (a dodici anni di distanza).
Gli anni 2000 sono segnati dalla presidenza Bush, che governa dal gennaio 2001 al novembre 2008.
Era un mondo più semplice rispetto a quello attuale.
Un mondo violento e segnato dagli equilibri sempre più precari, dai linguaggi sempre più violenti e da un depauperamento morale ed economico della società.
Bush, tuttavia, non è stato un presidente reazionario ed eccessivamente autoritario.
Volendo passare alla storia come il nuovo Reagan, pur fallendo clamorosamente, il suo linguaggio e la sua azione politica non sono comparabili a quelli di Donald Trump.

In questo caso, la profezia sul nuovo tipo di tensione (Welcome to a new kind of tension) dei Green Day si è avverata. La radio si è spenta e la loro musica non è più trasmessa quotidianamente.
Tuttavia, il dissenso non cessa mai di esistere: semplicemente, si sposta.

L’autore di questo articolo intende far presente alla lettrice/al lettore che, durante la presidenza Bush, il sottoscritto ha finito l’asilo e terminato le scuole elementari e ha iniziato la prima media con la presidenza Obama.

– Leonardo Mori

Bad boys, bad boys

Cosa accomuna una canzone reggae di inizio anni ’90, uno show televisivo cancellato da poco e i recenti disordini negli Stati Uniti?
Indizio: è il colore opposto al bianco.

BREVE INTRODUZIONE STORICA

Nel 1555 un corsaro inglese al servizio di Elisabetta I, Sir John Hawkins, deporta una manciata di schiavi nelle coste nordamericane per venderli ai coloni bisognosi di manodopera.
Inizia la “diaspora africana”, la tratta degli schiavi. Sui libri di scuola abbiamo tutti sentito parlare, a un certo punto, del “commercio triangolare”. Nei territori che ora formano gli Stati Uniti, per oltre tre secoli vi sono stati luoghi di produzione (miniere, piantagioni, campi eccetera eccetera) lavorati da manodopera schiavista. Questo ha contribuito a rendere gli Stati Uniti quello che sono adesso: lo Stato più potente e più ricco della storia ed uno spazio (reale e culturale) infinitamente contraddittorio e lacerato da divisioni.

Milioni di donne, uomini e bambini africani furono deportati, torturati, sfruttati fino allo sfinimento, discriminati e uccisi per buona parte della storia della “Terra dei Liberi”: un epiteto presente anche negli inni dello stato che si dichiarò indipendente il 4 luglio 1776.

Gli uomini che firmarono la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America scrissero queste parole, ripetute allo sfinimento e conosciute da ogni statunitense da quel momento in poi:
“Noi riteniamo queste verità essere per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali.”
Gli autori erano tutti proprietari di schiavi.
Gli Stati Uniti, prima ancora di nascere ufficialmente, mostrano una contraddizione (spaventosa ma affascinante) fra le dichiarazioni d’intenti e la realtà.

Una guerra civile negli anni ’60 dell’Ottocento, il conflitto più sanguinoso dell’intera storia statunitense, non termina la questione della schiavitù.
“E adesso coi negri che si fa?”
“Ora che i negri sono liberi ci uccideranno?”
“Non voglio che un negro stupri mia figlia.”

La schiavitù viene abolita, nel Profondo Sud fiorisce la segregazione razziale.
Oltre alla segregazione, i neri del Sud sono spesso linciati, discriminati e privi di lavoro e istruzione.
Molti scappano nelle grandi città del Nord: Chicago, New York, Philadelphia.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’70 la segregazione razziale finisce de iure e (quasi) de facto.

Oggi, gli Stati Uniti hanno quasi un quarto dei detenuti del mondo.
Di questi detenuti, più della metà sono afroamericani.
Un afroamericano maschio su tre, entro i primi 25 anni di vita, finirà per un certo periodo in prigione.
La minoranza afroamericana, la seconda più consistente dopo quella degli ispano-americani, rappresenta la fascia di popolazione più povera (e quindi più esposta a tutte le conseguenze del vivere in uno “stato sociale leggero” quali gli USA).

UOMO NERO A TERRA

Nel 1987 il gruppo reggae Inner Circle rilascia un singolo, Bad Boys, che passa inosservato.

Il singolo è una traccia di musica reggae che parla di un ragazzo che vuole diventare un uomo ma non capisce il valore della famiglia. Il tutto in un messaggio che, anche se non esplicitato, palesa il suo pubblico: adolescenti afroamericani, una fascia di popolazione molto più esposta ad abuso di stupefacenti, alcolismo, depressione, disoccupazione, bassa istruzione e alta criminalità rispetto ai coetanei non afroamericani.

Bad boys, bad boys
Whatcha gonna do?
Whatcha gonna do when they come for you?

Cosa farete quando vi prenderanno?

È un invito fatto da una band composta da membri di colore ad altre persone di colore, per dissuaderle da comportamenti violenti, illegali o comunque dannosissimi.
Insomma, state calmi o rischiate grosso.
Un tema presente e impegnato per una canzone diretta a degli adolescenti.

Nel 1989 va in onda il primo episodio di Cops (Poliziotti), uno show televisivo che riprende la vita e l’esperienza (sul campo) delle forze dell’ordine statunitensi mentre preservano l’ordine ed arrestano sospettati.

La sigla, dal primo episodio, è proprio il singolo degli Inner Circle. Motivo: la band piaceva molto a uno dei produttori.

Cops, andato in onda dal 1989 al 2020 sulla Fox (nota emittente conservatrice), è stato un programma televisivo molto popolare.
Nella maggior parte dei casi, i sospettati sono afroamericani.
Gli afroamericani sono sovra-rappresentati rispetto a qualsiasi altra etnia o minoranza.
Violenza preventiva, accanimento sulle fasce sociali più deboli della società (senzatetto, prostitute, tossicodipendenti, ladruncoli e così via) con la imprevedibile dimenticanza dei criminali bianchi e ricchi: questo (ma non solo questo) è stato Cops.


Sì: c’è un’altra contraddizione.
La canzone è fatta da un gruppo reggae, un genere musicale caraibico-creolo nato alla fine degli anni ’60, il cui alfiere più conosciuto è Bob Marley, quindi non esattamente per benpensanti timorati di Dio.
Il riferimento ai “Cattivi ragazzi” è l’unica cosa che rimane di una canzone il cui testo è stato completamente traviato.
Aggiungete questa canzone di sottofondo mentre due poliziotti immobilizzano a terra un sospettato afroamericano di sedici anni.

BLACK LIVES…

Negli ultimi mesi, le esposizioni mediatiche, in merito alle proteste anti-razziste e contrarie alla violenza delle forze dell’ordine scatenatesi negli Stati Uniti, sono aumentate a dismisura.
La black history negli Stati Uniti ha un’origine abbastanza recente, a livello accademico, ma la questione è lontanissima, estremamente complessa e risalente persino a prima che un concetto come Stati Uniti esistesse.

La presidenza Trump non ha fatto niente di concreto nel condannare le violenze mosse da motivazioni razziste e/o suprematiste.
Gli Stati Uniti, un Paese dove al 2002 c’erano almeno 250 milioni di armi da fuoco (nel censimento del 2010, gli Stati Uniti hanno superato i 300 milioni di abitanti), sembrano sul punto di scoppiare.

La recente pandemia, problemi sociali non rinviabili, la questione delle disuguaglianze schiaccianti, la brutalità della polizia, la violenza imperante, le infinite contraddizioni di una società che difficilmente si potrebbe definire in ascesa, sono tutti fattori che non possono lasciare indifferente un osservatore esterno. 

La maggior parte delle proteste per i diritti civili sono mosse da un intento economico: perché io non posso accedere all’abbondanza del sogno americano solo perché sono nero?
Qui non mi è consentito andare troppo oltre.
Un conto è stare seduti in poltrona, scrivere un articolo che pochi leggeranno, in una situazione confortevole e sicura da buon maschio bianco borghese.
Un altro è vivere in un quartiere malfamato, non avere un lavoro, avere magari un parente in galera e vivere continuamente con un “non morire” che ti rimbomba in testa.

Dal 30 maggio 2020 Cops non è più in onda.
In seguito all’ondata di proteste scoppiate in tutto il paese dall’omicidio di George Floyd, lo show televisivo è stato sospeso e cancellato.

Le proteste e la violenza continuano.
George Floyd non è il primo né sarà l’ultimo afroamericano ucciso dalle forze dell’ordine.
La Terra dei Liberi diventerà mai tale?

Bad boys bad boys
Whatcha gonna do?
Whatcha gonna do when they come for you?


-Leonardo Mori

La vita etera

Su colli incantati

Laddove s’inclina la trama del suolo

Siv partorisce appena dischiuso

Frattali ed anticapriole

Nel cioccare urlante che allontana l’estinzione

Il dinosauro divenne pennuto

Ed i popoli scopersero il fuoco

Stanze di stanze di stanze

A distanza sul ventre luccicante

Cangiante multiforme

Che porta i piedi fino all’acqua

So’ stanze

E vi sto scendendo

A forza di tirarmi su le brache

E con quale costanza

Ma con quale sostanza lo faccio

Stanza dopo stanza

Con quale costanza

Con quale sostanza

E che fai?

Cerco

E che che cerchi?

Che ne so lo cerco

Ma so che ci arrivo

Se solo mi concentro

Cos’è questo coriandolo che accartoccia multiversi?

Un eterna vita?

Una vita eterea?

È l’eterna vita de La Vita Eterea

Vorrei un registramente

Se solamente esistesse

Perché sopraffacentesi

Son fra parentesi

A galla nel mare

Nel quale aggiustare il frattale

È l’ideale è l’ideale

Per assemblare il nido tuo fatale

È l’ideale

Sputala fuori la saliva colloidale

E quello sai lo fanno solo noi

Che si sa guardarsi nell’occhio

Sventrando le storie della storia

E chi sa dove e chi sa cosa

Tutte queste uova

Autocacantesi

Autoschiudentesi

Saranno

Fino all’alba trionfante

E negli oltre di noi

Che son qua nelle stanze

Non più distanti o d’istinti oramai

Ho fatto un giro al parco

Giornata annuvolata

La gente non ha gente

Della quale aver paura

Perché son tutti quanti

Nell’altroversantesi

Dunque esasperantesi

Noi si comprende

È l’autoessersi l’autoesser Siv

Autovedentesi esser “Il”

Ah ecco

Ecco l’eco

Di cui echeggia il percorso della vita

Noi non siamo mica nuovi

Siamo rinnovantesi

Ecco l’eco è l’accorgersi

D’autoessersi autorinnovantesi

Ed é concentrico

L’eco è concentrico

È concentrico e concentrico

Econcentrico

Saremo sconcentrantesi

Ed in noi ed a partirci

Sarà sconcentrarsi del nonnulla

Fino all’altroversantesi

Dei sè molteplici

Nelle molteplici stanze

Dei molteplici multiversi

Siamo stati in vacanza nella vita eterna

Del sentiero di vita

Dei sentieri de La Vita Eterea

E tornato finalmente nel tempo e nello spazio

Comprendo d’essere un essere pennuto

Polenta Magenta

Lettera a un fratello mai nato

Caro fratello,

finalmente ho trovato il coraggio di scriverti. Come sai, mi è difficile rimanere concentrata nel lungo periodo. Penso tanto ma agisco poco. Ecco perché ci ho messo più del previsto a preparare questa lettera, spero non te ne abbia a male per questo. Comunque, in questi mesi di reclusione ti ho pensato enormemente. E anche adesso che la situazione è più lasciva, le persone escono per prendersi una birra al bar e i bambini vanno al parco accompagnati dalla nonna, l’intensità del mio pensiero non diminuisce. Perché mi hai abbandonato? Non riesco ancora a perdonarti del tutto. Avevo bisogno di te ieri tanto quanto ne ho bisogno adesso. Mi manca la tua presenza a casa. Saresti stato il mio modello e il mio anti-modello. Avremmo litigato tante volte e non ti nascondo che sarebbe stato divertente. Avrei tentato di buttarti a terra con il mio repertorio di mosse di Judo. Mi chiedo come saresti stato: intelligente e posato come papà o emotivo e irruente come la mamma? Non nascondo la difficoltà che incontro nel cercare di mettere a fuoco. Troppo da dire, troppo poco ordine in testa. Forse è per questo che mi piace sistemare fuori, ciò che mi circonda: la casa, la camera, l’armadio, gli utensili in cucina. Tu saresti stato un disordinato, a modo tuo ovviamente, il classico ordine personale che confonde lo sguardo estraneo. Ti saresti lamentato per la tua altezza, avresti voluto essere più alto, con le spalle larghe. Avrei odiato le tue fidanzate dai vestiti ricercati e dal trucco elaborato già di prima mattina. Avresti fatto legge o economia. Nonostante le divergenze, mi avresti voluto bene. Mi avresti protetto dai ragazzi, mi avresti insegnato a scegliere con maggior coscienza e con criterio, senza cadere nel tranello dell’ingenuità e del sentimento superstizioso. Dio, quanto odio tutti questi condizionali. Avresti avuto ottimi voti, solo per farti comprare un motorino. Dopo mesi e mesi di discussioni e rinunce, finalmente avresti convinto papà. Non avresti mai guidato ubriaco, non sarebbe stato nel tuo carattere. Il senso di responsabilità che i nostri genitori ci hanno trasmesso sarebbe sempre stato presente, anche nelle situazioni più depravate. Trattenuto e duro all’esterno, altamente sentimentale nel profondo del tuo essere. Avresti oggi il volto serio e tirato, gli occhi blu intenso, i capelli castani, le occhiaie, centosettantadue centimetri di altezza, poco più di me. Questa caratteristica ti avrebbe sempre fatto infuriare, ma per fortuna col tempo saresti stato capace di accantonare il tarlo.

Oppure, saresti stato un ribelle. Forse il primogenito deve essere un ribelle. Saresti stato tu quello che andava ai rave, alle feste non convenzionali, circondato da nomadi della vita. Avresti compiuto azioni illegali, ti avrebbero sospeso da scuola un paio di volte. Mamma avrebbe urlato e pianto tanto, papà si sarebbe chiuso in se stesso, e tu avresti fatto dentro e fuori casa. I nostri genitori avrebbero riposto in me tutta la loro speranza, visto che tu rappresentavi il caso perso, e ciò mi avrebbe portato a crescere con un forte senso di responsabilità, che ben avrebbe nascosto un senso di inadeguatezza onnipresente. Bada bene, ti avrebbero accettato e amato lo stesso incondizionatamente, visto che per fortuna loro non sono dei bigotti, e soprattutto sanno perdonare. Papà, col passare degli anni, avrebbe imparato ad ascoltare. Ma i suoi silenzi, quando lo deludevamo, ecco quelli ci avrebbero scottato nel profondo, sempre. Sarebbe stato impossibile abituarcisi. Avresti fatto a pugni con i ragazzi che mi avevano fatto piangere, e io mi sarei arrabbiata molto, avrei urlato «So badare a me stessa, me la so cavare da sola». Avremmo saputo entrambi che non era vero. Avresti odiato l’integrità di papà, integrità alla mercé di un mondo corrotto e di uomini scorretti. Il comportamento da lui acquisito tramite un’educazione religiosa cattolica, totalizzante, ti avrebbe fatto infuriare da adolescente, e avrebbe continuato a lasciarti basito da adulto. Da piccolo saresti stato ancora più peste di quanto sarei stata io anni dopo. Ecco perché, quando io avrei litigato con mamma, lei mi avrebbe sempre ricordato che ero nata per sbaglio, perché lei e papà erano già abbastanza avanti con gli anni quando hanno avuto te, e non avevano la voglia di crescere un altro figlio, di passare altre notti insonni e altri anni di privazioni sociali. Avresti rubato, una volta soltanto, le offerte dei fedeli durante la messa. Non perché volevi i soldi, ma perché volevi metterti alla prova, volevi vedere se eri in grado di compiere quella profanazione. Avresti girato con compagnie opinabili, ma solo perché non ti piacevano i ragazzi normali, la cui meschinità avresti reputato peggiore di chi, per quanto fuori contesto, per quanti errori commessi, almeno tentava di essere se stesso e di pensare con la propria testa, per quanti sbagli ciò può comportare, soprattutto quando si è giovani. Avresti scritto moltissimo, anche in greco e in latino, perché, sebbene avresti odiato il fatto che papà ti avesse imposto di fare il liceo classico, in fin dei conti eri portato e lo avresti capito quasi subito. Avresti scritto soprattutto canzoni, ma non le avresti fatte leggere a nessuno se non a me, alla tua sorellina. Le avremmo cantate a notte fonda, fuori in terrazzo, mentre fumavamo sigarette a lume di candela, grattandoci i becconi di zanzara. Un giorno, avrei scritto sui muri fuori da scuola la tua canzone più bella, perché ero orgogliosa di te e amavo quelle belle parole, così oneste e pure. Di tutta risposta ti saresti infuriato e non mi avresti parlato per due settimane, nemmeno durante le cene, unico momento della giornata in cui ci saremmo trovati tutti e quattro nella stessa stanza. Avresti fumato molte sigarette solo per far stare male papà, per ribadire che non eri come lui. Avremmo vissuto numerose avventure, avremmo litigato in un’infinità di occasioni solo per fare sempre pace, alla fine. Per stanchezza, per comodità o per puro desiderio di farlo. Mi avresti consolato quando sono morti i nonni e quando è morta la zia, che si è uccisa proprio come avrei voluto morire io in quel periodo così difficile vissuto a sedici anni. L’incapacità di aiutarmi in quei lunghi mesi ti avrebbe distrutto, saresti spesso scappato di casa in quel periodo, rimanendo a dormire dalla ragazza di turno che avevi. Avremmo litigato anche per questo, perché di donne rispettavi solo me. Tuttavia non saresti mai stato un violento o un misogino, semplicemente non saresti stato in grado di avere legami stabili. Poi, ma questo non lo potevi sapere, avresti conosciuto quella ragazza francese dal volto incorniciato da capelli ricci che sorrideva sempre, e non l’avresti più lasciata andare. Mi manca averti di fianco, diverso da me ma comunque con il mio stesso sangue. Lo stesso sangue. Mai come in questo periodo di quarantena, un legame così mi è mancato. Sappi che ti avrei accettato con qualunque carattere, con qualunque aspetto. Fratello mio, prima o poi ci incontreremo, forse nella prossima vita o forse quella dopo ancora. Forse quando saremo tutt’uno con l’universo. Aspetto lietamente di potermi ricongiungere a te. Fratello, sangue, amico, confine, anima, altra faccia della mia stessa medaglia.

 

 

Elisa

 

Intervista a Murdock Boomin

Leonardo Balducci classe 1997 di origine pesarese, è presente nella scena rap ormai da quasi dieci anni con il nome di Murdock Boomin.

Un inizio da freestyler, che lo ha portato a partecipare a svariate battle locali e regionali, sino all’abbraccio di quella che poi si è rivelata la sua grande passione… i testi scritti.

Attualmente conta un Ep dal titolo “Abnormal” uscito nel 2019 con 6 tracce, oltre che tre singoli di cui l’ultimo internazionale con un artista tedesco “Sunset ft. Spektrum” e un featuring con Fill Koi nella canzone “OneTake Sound Garden”.

 

T: Dunque Doc, posso chiamarti Doc vero? ah!ah!ah! Come hai iniziato ad avvicinarti a questo mondo?

D: L’inizio se dovessi riassumertelo te lo racconterei con due album, entrambi di Fibra… “Sindrome di fine millennio” e “Turbe Giovanili”.

Ho iniziato come tutti al parchetto sotto casa a Soria, facendo freestyle verso i 13/14 anni, poi, l’anno dopo, con un amico mio, mi sono messo a fare i primi singoli assieme a lui e ci siamo avvicinati al centro sociale di Pesaro.

Dopo un annetto da lì è nata una Crew, la Freak Family… che sicuramente non conoscerai…

 

T: Mai sentita.

D: Idiota.

Da lì comunque abbiamo iniziato a organizzare le prime jam, i primi eventi, le prime battle, i primi live… a girare facendo esibizioni per qualche evento o locale di zona, portando la nostra musica, ma tanto ne facevi parte anche tu, quindi lo saprai.

 

T: Quello che so io non conta ah!ah!ah! Comunque, cosa ti ha portato dalle battle alle canzoni?

M: Non ricordo il momento preciso, sicuramente influenzato dai miei idoli dell’epoca che scrivevano dischi, mi sono trovato a riflettere sul fatto che il freestyle è un’arte improvvisata, è la tua reazione all’emozione di quell’istante che scorre come le acque di un ruscello, mentre l’incidere una traccia è una visione diversa, costruita, forse più consapevole, che rimane incisa nel tempo; quindi si trasforma in qualcosa di atemporale, per me, un’emozione che non svanisce.

Ho ragionato quindi pensando che la gente si ricorda magari che c’era un ragazzo bravo a fare freestyle ma poi non si ricorda di me, forse perché c’è gente molto più forte nel freestyle o forse perché facevo fatica a lasciare un messaggio sui miei turbamenti interiori, avendo una persona davanti con cui competere, credo più nel confronto, probabilmente non era la mia strada.

Sicuramente molto hanno contribuito Fibra, Neffa, Kaos, Deda, insomma quella gente lì, vedendoli lì nell’olimpo con i loro dischi, così ho pensato voglio farlo anche io.

 

T: Differenze invece che hai notato tra i live delle battle e quelli dei concerti?

M: Di base hai comunque il cuore che ti batte a mille. Quando fai freeestyle e inizi un esibizione improvvisata, l’emozione ti secca la bocca perché non sai bene quello che dirai, se l’altro è in giornata, se è forte davvero, se metteranno la base giusta, quindi hai tutta una serie di incertezze che rendono quell’emozione molto stimolante e adrenalinica, mentre durante il live hai un’emozione più sicura, più costruita, più consapevole.

È creata in un altro modo, c’è un altro motivo. Voglio darti quel concetto e preparo il live per darti quel concetto.

Poi anche il pubblico è diverso, è lì per un altro motivo, è lì per vedere l’artista cantare qualcosa su di sé che poi lo faccia ridere o piangere e indifferente, è lì per sentire qualcosa di te, diversamente dalle battle dove credo che la gente vada lì per una sfida tra due persone per vedere chi prevale; è diverso principalmente nella preparazione: in uno ti alleni, in uno devi preparare uno show, costruire qualcosa da presentare al pubblico, questa è la cosa sostanziale.

 

T: Cos’è che ti ha portato a tutto questo? Cosa ti ha portato a fare un EP? È proprio questa concezione atemporale?

M: Sì questo EP è fondamentalmente il momento di cambiamento della mia personalità, del mio essere Leonardo o Murdock e delle mie consapevolezze consolidate nel tempo.

Volevo riunire ciò che ero prima di quell’EP e infatti le canzoni sono tutte riflessioni su me stesso, sul rapporto con gli altri e sull’amore.

Si chiama “Abnormal” appunto per questa sensazione di anormalità che sta nel sentirsi diverso dalla massa.

Inizialmente mi sentivo indicato come diverso o non valido e poi con il tempo è venuto fuori che in realtà era stata soltanto una visione sbagliata da parte di chi mi ascoltava o di chi mi guardava senza farlo, magari anche da parte mia.

Ho deciso quindi di costruire una strada nonostante non sapessi nemmeno io dove mi stavo dirigendo.

Doveva essere un punto da dove iniziare un nuovo cammino e lo è stato.

Ho rinchiuso le mie emozioni del passato lì dentro e da lì ho avuto un approccio diverso con la musica e con le canzoni.

 

T: Cos’è questo approccio? Questa evoluzione di cui parli?

M: È cambiato il punto di vista su questo mondo, ho abbandonato le certezze e riscoperto il dubbio, il dubbio che ti porta a crescere, a riflettere.

Quando hai certezze pensi sempre di essere nel giusto ma quando dai credito al dubbio inizi a vedere molti più punti di vista, aspetti della cosa completamente sconosciuti e quindi devi rimettere tutto nuovamente in discussione.

Eviti di darti pregiudizi musicali, riformuli i tuoi ascolti.

Come ad esempio il parere sulla musica. Semplificando… all’inizio non mi piaceva la trap, però aprendo il mio orecchio ho scoperto di esserci molto affine, semplicemente avevo un pregiudizio che è una cosa sbagliata e quindi non riuscivo a capirla. Me la precludevo ancor prima di sentirla realmente.

Mentre ora vedo tutto da più prospettive.

 

T: Cos’hai in serbo adesso? Sei pronto per un album?

M: Diciamo che sono pronto per cercare la mia dimensione, sono alla ricerca del mio spazio, del mio “io”, sia musicale che non.

Perché di base io so di non sapere ancora chi sono.

Quindi sto sperimentando tante cose nuove, sia musicalmente parlando che espressivamente.

Potrà piacere ad alcuni e ad altri no però è quello che mi rappresenta in questo momento.

Quindi adesso usciranno alcuni singoli tutti diversi, tipo “Dammi un minuto” che è techno-house oppure “247” prodotta da mio fratello Ha-Maze che ha una sonorità fresca ma più classica.

Uscirà di tutto insomma, sonorità dalle più hardcore a quelle più chill, dalle liriche più metriche a quelle più aperte, dal riflessivo all’egotrip.

Lo scopo sarà non essere mai uguale a ciò che ho fatto prima, per cercare una nuova dimensione dove creare qualcosa di nuovo e poi, chissà, distruggere tutto per ricominciare.

Per me la musica è questo, una ricerca continua di nuovi spazi musicali.

Ad esempio l’ultimo singolo internazionale: ha un sound lo-fi hiphop, chill, in feat con Spektrum direttamente da Berlino, produzione di Ha-Maze e Oblio, fatta con un mpc1000… un pezzo di storia!

 

T: Visto che hai tutte queste diversità musicale nella c’è qualcuno in cui ti rivedi?

M: Italiano in questo periodo non saprei, l’ascolto sempre meno. Sembra sempre più frivola e priva di contenuto e mi piacerebbe una ricerca dei vecchi valori e contenuti, quindi forse la persona più adatta adesso sarebbe Marracash con “persona” perché ha alzato notevolmente l’asticella. È riuscito a mettere dei contenuti più spessi nelle canzoni mantenendo sempre altissimi livelli tecnici e di sound, creando un concept album che non si era mai visto e che ha avuto comunque un signor successo perché è stato compreso, non solo ascoltato, probabilmente da un pubblico più adulto.

Per le produzioni e l’originalità stimo molto Tha Supreme e FSK, anche se non per i contenuti. Greg Willem (produttore FSK) è secondo me il precursore di qualcosa di nuovo, qualcosa che deve ancora nascere, quindi sempre per quel discorso di nuove visioni, non può che prendermi.

In Italia ho sempre stimato Salmo per il suo approccio alla musica e all’arte, secondo me dopo “Hellvisback” non è riuscito ad andare oltre se non nei numeri. Secondo me lì ha raggiunto l’apice tra metriche, sonorità, flow e immagine. Per me è il prototipo di disco perfetto quindi penso che sia difficile che mi stupisca ancora, ma mai dire mai, è comunque Salmo…

T: Bene Doc, ora passiamo alle tre domande finali… Artista e canzone preferita?

M: Non ho un artista preferito e neanche una canzone, è difficile per me averne una preferita. È un po’ una domanda bastarda. Parlando di canzoni “nuove” potrei dirti una di quelle che ascolto e apprezzo di più come “Apnea” di Rkomi, molto ermetica come canzone. Riesce, tramite le sue nuove sonorità e le sue particolari parole, a ricreare la stessa bellissima e confusa emozione di quando si prova un forte sentimento, riesce a creare l’ambiente intorno a te, non capisci come, non sai cos’è e dove ti porterà, però lo accetti e te ne prendi carico, provi a tenerlo e a dargli un nome e quindi appunto ti senti in “Apnea”, senza fiato, per lo sforzo di trovare un nome a qualcosa di troppo grande per averlo. Questo è il trip che mi faccio ascoltando la sua musica.

 

T: Invece un feat impossibile ed uno italiano?

M: Minchia… bella domanda. Se potessi fare un feat con chiunque ce ne sarebbero troppi ah!ah!ah!

Partiamo dai rapper italiani… ti direi Izi o Rkomi o vabbè Fibra ovviamente, perché è il padre della mia musica. Gli altri due invece perché esprimono in modi nuovi e molto profondi le loro emozioni, non c’è nulla di classico bensì un modo tutto loro e quindi ne apprezzo l’originalità e la ricercatezza.

Impossibile potrei farti una lista di chilometri: Skepta , Asap Rocky, Ocean Wisdom, Lamar, 50 Cent, Logic…

Faresti prima a chiedermi con chi non lo farei ahahah

 

T: Ahahahah. Concludiamo comunque con un consiglio a una new entry…

M: Adesso visto il momento che c’è, gli consiglierei di decidere cosa vuoi fare davvero e di farlo “non stop”, senza mai ascoltare chi parla per dirti che sbagli, se a te piace va bene così.

Accetta i consigli, ma non cambiare per i gusti degli altri e soprattutto esci, non lasciare la tua roba nel cassetto a prendere polvere, dagli aria.

NON FARTI TROPPI COMPLESSI. Fai dell’insicurezza il tuo cavallo di battaglia.

Teobaldo Bianchini

Intervista ad Mc Om

Dino Forte, in arte Mc Om, classe 1990, nato a Bologna. Tra i fondatori dello Zoo Rap, collettivo di rapper bolognesi, nonché uno tra i primi freestyler della new generation che dal 2010 ad oggi annovera più di 200 battle (da quando ha smesso di contarle), tra i suoi lavori musicali spicca invece “Per Stare Bene Mixtape” prodotto nel 2017.

 

T: Come ti sei avvicinato al rap? Quali sono stati i tuoi primi passi…

O: Praticamente Bot Mc è stata la chiave per il mio percorso ed il mio avvicinamento, lo scatto è partito dopo che mi ero lasciato con una tipa, già avevo idea di scrivere un testo, poi però, quando questa mi ha lasciato, ho trovato il luogo dove sfogare le mie parole ed emozioni cioè un foglio di carta e mezza boccia di vodka, oltre ovviamente a Bot che mi fece conoscere la filosofia hip hop e ascoltare e guardare per tutta la sera la musica e video di Tupac.

Dopo sono arrivati gli Assalti Frontali primi su tutti e Inoki con Joe Cassano, 60 Hz lo facevo girare spesso… Mondo Marcio, Fibra e Caparezza, sono arrivati poco più tardi e poi vabbè son diventato un nerd, ed ho iniziato ad ascoltarli tutti.

Era un periodo dove per me più uno era sconosciuto e più mi gasava ascoltarlo.

 

T: Ci racconti invece del tuo primo contest e della battle più bella che hai affrontato?

O: La mia prima battle porca putt*na! Le prime due ti devo dire, una sola non è possibile! Perché la prima non fu ufficiale e la feci contro Bot davanti al multisala con i ragazzi del paese e anche se è stata una cosa molto underground e tutta a cappella, devo contarla assolutamente, alla fine c’era la gente che ci sentiva e ci votava, quindi era una battle, non un freestyle di allenamento! Sennò ufficialmente, la prima fu all’Energy, in riviera romagnola, e andrai contro H2yo, un ragazzo con il quale mi ero allenato nei giorni precedenti in casa (e uno degli mc insieme a Inda e i SottoSopraSquod che mi presentò buona parte della scena bolognese quando tornai dalla provincia) e che, guarda caso, fu anche il primo che sfidai, mentre dopo persi contro Irol.

Due mesi dopo invece ci fu la seconda e mio primo contest a Bologna nel dicembre 2010 al Cocktail Club, eravamo penso 10 MC una cosa del genere, forse 12. Fu una battle assurda, molto bella, mi sfidai con Inda e in finale con Aly B e MinaSeven (female mc che poi entrò nella mia crew Facce Plastiche). Si trattava di una finale a tre e vinse Aly B, il primo che sfidai non ricordo chi era.

Le più belle sono due, la prima è il prequel della Battle Arena del 2011, contro Posaman in finale, dopo 7 spareggi, nelle fasi precedenti battei Frah Quintale, Ogaman, cioè gente che aveva un nome! Fu la prima battle dove mi misi in luce con la mia città, c’erano comunque 400/500 persone ed è stato anche il primo contest che ho vinto in assoluto. L’altra invece che è stata la più bella per sensazione e per come l’ho vissuta fu con Frank al Red Lion a Modena, battendolo in finale e facendo finire io stesso la battle dopo 30 min di mazzate. Perché scherzandogli in rima gli dissi “dammi la mano” e Frank non me la diede, così dopo, quasi indispettito dal gesto gli rimai “va bene la sfida, ma se non mi dai la mano per te la battle è finita”, posai il microfono e scesi dal palco tra la folla in visibilio. Uno dei giudici per questo decise di votare Frank, cioè alla fine non è che potevi andartene, dovevano decidere i giudici quando terminava il tutto, ma il pubblico era dalla mia. In seguito ho ri-sfidato Frank almeno altre 5 volte e mi ha sempre menato di brutto, poi vabbè ha vinto il Tecniche Perfette e quindi ciao ah!ah!ah! Però ancora oggi per quella cosa lo prendo in giro.

 

T: Si vede che ami questo mondo e lo si è visto anche durante questa quarantena. Prima il rap nel cortile del palazzo e poi sul tetto, è stato uno sfogo dovuto alla pandemia?

O: Io non mi sono fatto troppo un’idea a riguardo, non so per quale motivo ho avuto una sorta di reazione che mi ha portato ad ignorare la cosa nonostante sia sulla mia pelle tutti i giorni. La mia pelle, come quella di tutti. Però ho avuto voglia di viverla normalmente e io, normalmente, faccio live. Quindi sono andato prima nel cortile e poi sul tetto, inoltre ti confesso che è sempre stato il io sogno andare sul tetto a fare rap. Dal mio blocco, rappo al mondo!

Però ecco, l’ho fatto perché per me era normalità.

Ad esempio ho ricevuto due nomination nei vari quarantena-freestyle che si sono susseguiti in questo periodo, ma non ho partecipato perché non mi piaceva l’idea generale. Non voglio giudicare però, perché io mi son tenuto lontano da queste dinamiche reagendo così, se l’arte è la descrizione di quello che si vive, ben venga se c’è qualcuno che riesce a descrivere questo momento.

 

T: Freestyle, canzoni, tra i tanti intervistati tu sei l’unico al momento che fa entrambe le cose e le fa con un certo peso anziché lasciare andare. Cos’hanno di diverso le due cose?

O: Certo ogni volta che scrivo un pezzo lo scrivo barra dopo barra in freestyle e di conseguenza ogni volta che faccio una barra sono quindi testi riciclati… [silenzio] …scherzo ovviamente! Però si sa che anche quello fa parte del gioco.

Ora, detta ‘sta stronzata, non è facile conciliarle per il tempo materiale e la continuità. Dipende poi anche dalla persona che sei tu, io sono molto discontinuo e faccio molta fatica infatti. Solitamente se mi concentro solo su uno, l’altro lo accantono. Le battle mi suscitano emozioni ma quando scrivo non le voglio, voglio il mio equilibrio di scrittura.

Quindi ho capito che se devo scrivere devo interrompere almeno per tre mesi il mio rapporto con i contest, però poi devo recuperare nel freestyle quando li riprendo. Il freestyle tra amici invece lo faccio sempre, però non ti alleni quanto con le battle. Lì devi affrontare anche le tue emozioni. Io sono sempre stressato prima di una sfida ma poi converto quello stress in gioia, rabbia, energia, allegria… insomma trasformo un male in un’emozione semplicemente con un microfono.

 

T: Una realtà che mi ha sempre coinvolto da quando sono a Bologna era proprio un contest organizzato da te, penso tu abbia capito di cosa parlo… quindi, se ti dico Zoo Rap, cosa mi rispondi?

O: Non saprei. Tanto, tanto, tanto amore. Perché non so, è come se fosse un figlioletto, un progetto artistico veramente molto bello. L’idea dell’unione che fa la forza partito da sei, sette ragazzi bolognesi che si è evoluta in tre anni di serate.

Adesso quei ragazzi sono cresciuti, fanno interviste, live, contest, si è creata una grande ballotta, si passano informazioni, si tramanda la cultura… è gran bel paragrafo della mia carriera.

Ho veramente tanti ricordi, mi ha insegnato a stare con gli altri, mi ha formato anche nelle serate da presentatore o da giudice (se mi chiamano per farlo oggi lo devo sicuramente a quello), ma soprattutto ciò che più mi ha dato è la stima di tutti quelli che venivano alle serate.

 

T: Parliamo della “fredda e rossa Bolo” direbbe Inoki. È da sempre patria dell’hip hop in Italia e tu l’hai vissuta a cavallo di due ere. Ce ne parli un po’? Com’era la scena a Bologna prima e com’è oggi?

O: Beh quando sono arrivato a bologna c’era l’Arena051 che organizzava le serate in maggioranza, comunque c’erano altri organizzatori, però appunto l’Arena faceva le serate di punta dove veniva gente da fuori per ascoltare del rap underground fatto bene e io quello che respiravo da ventenne era una Bologna piena di fazioni con tante crew che invidiavano quello che era l’Arena e la situazione che riusciva a creare.

Prima di loro ci sono stati Soul Boy, Royal Mehdi, PMC, BPS, Shezan il Ragio, insomma però dopo questi grandi pionieri c’erano i regaz dell’Arena e un po’ tutti gli altri ragazzi che volevano visibilità, ma nel rap o ti sbatti per averla o te la compri o sei un supertalento, e guadagnarsela vuol dire quindi anche organizzarsi la serata! Questo molti non lo capivano e tutt’ora molti continuano a non capirlo, mentre i figli dell’Arena di quella generazione hanno imparato ad aggregarsi a loro volta perché si sono semplicemente chiesti… “dell’Arena cos’è che ha funzionato? L’aggregazione!” E infatti ci siamo aggregati, sono nate crew: Bologna Air Linez, Zoom Click, GENS, OTM, Over The Flow, Fotta Anomala e i collettivi come La Congrega o lo Zoo Rap e questa nuova onda che non è un ritorno alla crew ma ha lo stesso scopo, condividere la passione.

Ecco, secondo me ora è cambiato questo, c’è più collaborazione.

 

T: Musicalmente parlando invece? C’è qualcosa che preferisci in particolare? Perché tra old, new, bombap, trap… alla fine hai fatto tutto e fai tutto…

O: Beh perché è questo il mio scopo, io faccio tutta la musica che posso fare.

Siccome sono in primis un ascoltatore provo a fare la musica che vorrei ascoltare. Se a me un genere piace provo a riprodurlo magari in chiave rap perché vabbè… Il rap mi prende molto più degli altri generi. Cioè potrei dirti che un giorno magari farò uscire un “’O sole mio” versione trap perché alla fine mi piace e se mi piace, questo basta per riprodurla.

Magari se a te piace la bossa nova e piace anche a me, se faccio un pezzo di quel genere può anche succedere che lo apprezzi e ti vai ad ascoltare qualcos’altro di mio.

La realtà però è che lo faccio principalmente perché secondo me ti rende un artista migliore.

Imparare a cantare raggeemuffin o RnB mi piacerebbe un botto, ma devo lavorarci ancora parecchio.

 

T: Bene, ora veniamo alle tre domande di rito … Rapper e canzone preferita?

O: [minuto di silenzio] … non sono semplici… [minuto di silenzio] … te ne dico uno americano e uno italiano o è barare? Americano Tupac perché ha un flow e un timbro che mi mette tranquillo, mi tranquillizza troppo. Italiano… [momento di silenzio] …difficile uno solo porca tro*a… [silenzio] …porca miseria … Gemitaiz… il vecchio Gemitaiz… [silenzio] …dai ti dico Marracash, si ti dico Marracash perché intelligangsta!

 

T: Invece se potessi fare ft impossibile e uno con un italiano?

O: Impossibile con Gallo, che è il ragazzo con cui rappavo che non c’è più, con cui ho fatto i primi dischi.

Mentre invece, improbabile non impossibile perché dai prima o poi farò un ft con tutti! Porca tro*a… però uno solo… aspe… ci arriviamo… [silenzio] … Caparezza… sì… Anzi no! …qua mettici Gemitaiz! Per fare il paraculo Gemitaiz, ma solo fino al 2013-15, il vecchio Gem, solo lui. Sennò Caparezza, a lui la scelta!

Poi sicuramente tra oggi e domani ci penserò e dirò “no gliene dovevo dire un altro! Lo sapevo!”

 

T: Se dovessi dare un consiglio ad un emergente cosa gli diresti?

O: Gli consiglierei di chiedere tanto a chi lo fa da prima, di ascoltarlo con umiltà, ma comunque di trovare la propria strada e poi, se è relativamente giovane, di rispettare sì gli altri, ma ancora prima di ascoltare se stesso, perché penso che questo sia uno dei primi dogmi dell’hip hop e poi, secondo punto, in una parola… Sbattiti! Se ti aspetti che le cose ti arrivino puoi solo piangerti addosso, invece se ti sbatti a qualcosa arrivi, non so a cosa, ma arrivi!

 

Teobaldo Bianchini

Intervista a Rage Hoover

 

Rage Hoover, classe 1991, nato a Foggia ma adottato dalla provincia pesarese all’età di 12 anni, ha esordito nella scena tre anni dopo come producer fino alla maggiore età dove ha iniziato a darsi anche al rap scritto e cantato per poi verso i 20 anni dedicarsi esclusivamente a quello, abbandonando i beat.

Ad oggi conta 3 mixtape di strumentali, 2 mixtape musicali e un totale di 700mila ascolti su Spotify, oltre che più di 100mila su YouTube.

 

T: Rage sei forse uno dei primi che ha iniziato a fare rap nel panorama di Pesaro, Fano e Urbino della tua generazione. Da dove nasce questa passione?

R: Probabilmente nasce da quando ero piccolo, anche se alla mia età, quando avevo 14-15 anni, non era come oggi, adesso ci nascono direttamente. Quindi ti parlo di 15 anni fa, era veramente strano. Mi ero trasferito da poco, avevo conosciuto delle persone quindi non è che soffrissi tanto il trasferimento però boh ascoltando Club Dogo e Articolo 31, Sacre Scuole mi sono “auto introdotto” in un mondo che sentivo mio forse più della provincia in cui mi ero trasferito. È nato tutto scoprendo un programma per fare beat e mi ha preso così tanto che l’ho visto come un modo per evadere, è stato un modo per ambientarmi in un luogo nuovo nonostante alla fine non lo facesse nessuno.

 

T: Tra tutti gli intervistati tu e Simon Skunk siete sicuramente tra i più old, tuttavia avete da sempre avuto due approcci al rap totalmente differenti, come mai?

S: Questa è una bella domanda, è complicato dargli una risposta. Io ho ascoltato tanto old school e amavo le loro basi però quando ho iniziato a rappare l’ho sempre visto come un rap-cantato e nonostante mi piacesse campionare i beat vecchi ho sempre voluto provare ad andare oltre i soliti canoni, provare qualcosa di nuovo. Un approccio che oggi chiamano indie anche se secondo me con l’indie non centro nulla.

Per me, quello che faccio io, è unire il rap al cantato su basi pop. Come ad esempio nel caso di Coez o di Frah Quintale, loro hanno fatto uguale. Facevano old e poi hanno iniziato a cantare, può sembrare un metodo per entrare nel mainstream ma non me n’è mai fregato nulla.

Anche se vorrei viverci mi va bene anche solo farlo, perché mi piace… e basta.

 

T: Si può dire che fai musica di un genere magari più “commerciale”, la definirebbero così i puristi, pensi sia giusto come epiteto?

R: Fondamentalmente potrebbe essere così perché tanto l’old non è commerciale, è proprio questo il significato.

Tutti ci son passati, anche Fibra prima faceva old school vero però poi si è messo a fare il commerciale, ma è una cosa strana da definire.

Per entrare nel mainstream sicuramente devi mantenere certi canoni, tutte le canzoni che sfondano se guardi sono così, un po’ pop.

Io lo faccio però perché mi piace fare musica nuova, essendo appassionato dei Dogo che già da Sacre Scuole e Mi fist tendevano a quell’impronta lì nei ritornelli nonostante fossero old school era sin da principio forse quello che mi prendeva, poi con i sint e i campioni di Don Joe sono esplosi definitivamente.

Penna capitale ad esempio, il secondo album, potremmo dirlo totalmente commerciale però erano comunque veri, avevano voglia di fare ed essendo un loro fan sfegatato li ho seguiti.

Alla fine il primo album ch ho ascoltato erano gli Articolo 31 quindi già si capiva dove sarei andato a finire ah!ah!ah!

 

T: Da un punto di vista musicale collabori molto con Dask, produttore pesarese, si potrebbe dire che da quando vi siete incontrati non vi siete più lasciati. Hai trovato la tua anima gemella musicale? Cos’è che deve avere un produttore per prenderti così tanto?

R: Ai tempi che facevo musica con Quel Baby nel 2013-14 e facevamo molte serate, suonavamo spesso alle varie feste di Pesaro ed un giorno è successo che chiamarono loro un dj che poi diede forfait nel pomeriggio. Ricordai quindi che un anno prima avevo ricevuto un messaggio con una canzone di Dask e mi ero complimentato con lui (anche se però, nonostante gli avessi fatto i complimenti, lui mi aveva detto che preferiva fare il dj) e quindi, a un anno di distanza, quel pomeriggio gli scrissi. Ricordo che gli trovai io le canzoni trap per quel dj set e da lì ci siamo trovati. Lo abbiamo chiamato la serata dopo e quella dopo ancora e poi si è appassionato di basi definitivamente iniziando a produrre fino al 2016, quando abbiamo aperto lo studio insieme e da lì con il “Reset Studio” siamo stati sempre insieme.

Infatti l’anno dopo è subito partito il progetto nostro, prima di allora solo nel 2015 aveva prodotto una canzone per me, quindi diciamo che il progetto vero e proprio è partito l’anno successivo.

Per cui penso che ora sia normale il fatto che collaboriamo sempre insieme, lui sa già quello che mi piace quindi quando gli faccio sentire una canzone lui sa già come voglio il beat, è il mio producer di fiducia e non ne vorrei un altro.

 

T: Un tuo format che ti ha reso praticamente l’unico nel tuo genere è stato Hoover Burger che ha avuto un notevole successo su tutti i social, da dove nasce quest’idea?

R: Vedi, io ho fatto il cuoco per 9 anni ed era complicato far musica lavorando in cucina, quindi è una cosa che ho sempre avuta come passione ma insieme erano incompatibili, così ho mollato la cucina.

Ho fatto due conti, cosa mi fa stare meno male se la lascio ed è risultata la cucina.

Così nel 2016 mentre ci pensavo ho detto perché non fonderle? Ma soprattutto… come fonderle? La cosa più diretta sembrava fare degli hamburger e rapparli, quindi l’ho fatto.

Poi ero fissato con Chef Rubio in quel periodo e infatti nella prima puntata ho usato la musica di “Unti e bisunti”, ricordo che era agosto 2016 e andò benissimo, così ho continuato anche se sporadicamente, facendo più o meno un video ogni due mesi.

Nel 2019, quindi l’anno scorso, ho poi pensato di riprenderla perché alla fine lasciarla era stata veramente una cazzata e l’ho ripresa.

Ho iniziato di nuovo a maggio nel 2019 e per tutta l’estate ho fatto 1 episodio ogni 2 settimane, una stagione da 9 puntate di un minuto su Instagram mentre la seconda l’ho voluta spostare su YouTube inserendo delle puntate più lunghe e producendo magliette e grembiuli del format Hoover Buger.

Avrei dovuto fare tutte le regioni d’Italia, la canzone sul panino la prima settimana e la seconda invece dedicata ai backstage, ma ho potuto farlo soltanto fino a fine febbraio poiché per via dell’emergenza Covid-19 sono stato costretto a fermarmi fino a data da destinarsi.

 

T: Tra album, mixtape, ep, ecc. ne hai fatti uscire veramente tanti, hai intenzione di fermarti o sei pronto per buttare fuori qualcos’altro a breve?

R: A livello di album non ho intenzioni in questi mesi di fare uscire nient’altro mentre a livello di singoli ne abbiamo pronti già un tot, sia con Dask che con Steph Sinatra, il cugino con cui ho iniziato a fare musica che era con me quando ho scoperto il programma per fare basi.

Ho un sacco di pezzi pronti con lui e uno solo con Dask però solo singoli, per ora l’idea è questa.

 

T: Nonostante gli album trovi anche tempo per dare spazio appunto anche a dei singoli, l’ultimo ad esempio qualche settimana fa “Bambola”, perché secondo te alcune canzoni vanno fatte uscire da sole mentre altre presentate in un album?

R: Beh diciamo che se uno lavora a un singolo dovrebbe valere molto, dovrebbe essere un top anche se a volte magari hai una canzone da parte e lo fai uscire comunque.

Pensare ad un album è un peso diverso, quindi abbiamo pensato di concentrarci adesso su una canzone e basta e farla bene, in un album puoi fare belle canzoni ma le hit sono poche, le altre ti riempiono l’album e basta alla fine.

Al momento quindi voglio puntare su una canzone alla volta sperando di consolidare una grande fan base perché soltanto quando hai la gente che ti aspetta puoi fare uscire un album, diciamo che ti dà più soddisfazione anche se in questo momento storico, musicalmente parlando, fare un singolo è tutto.

E siccome tralasciando la passione voglio comunque iniziare a concretizzare un po’ il tutto, se voglio veramente campare di musica devo velocizzarmi e fare quindi quello che bisogna fare in questo momento, ovvero i singoli.

 

T: Bene, ora le tre domande di rito… Artista e canzone preferita, vai!

R: Artista preferito ovviamente Gue, ma potevi dirlo anche tu ah!ah!ah! È il mito musicale, quello che sarei voluto essere ma so che siamo distanti. Riconosco che non ho il suo carattere e quindi scrivere pezzi come lui sembrerebbe finto nel mio caso, mentre lui qualsiasi cosa faccia riesce a risultare reale. Per questo lo ammiro.

Per quanto riguarda la canzone, ti direi “Una volta sola” perché per me parla di tutto, di storie vere in cui mi sono ritrovato tantissimo e che ancora oggi mi fa venire la pelle d’oca ogni volta che l’ascolto. È la canzone più bella che abbiano mai fatto secondo me. Mi ritrovo nelle frasi, nei versi, nelle rime… poi è stata una delle prime canzoni che mi ha fatto appassionare a questo mondo quindi ci sono anche tanto affezionato.

 

T: E se invece potessi fare un feat con chiunque e uno con un italiano chi mi citeresti?

R: Impossibile ti direi Jay-Z che ho stimato tantissimo o sennò come tanti Tupac o Notorius, ma Jay-Z va benissimo. Se invece dovesse essere esterno alla scena hip hop beh… assolutamente Michael Jackson .

Italiano beh… che te lo dico a fare! Sono 10 anni che sogno di fare un feat con Gue, lo avevo pure contattato una volta per email e mi aveva anche risposto. Era l’anno di transizione tra i Dogo e la carriera solista.

Il problema fu che gliela mandai da una mail anonima che non uso mai praticamente e quindi, nonostante lui mi avesse risposto dopo due settimane, lo vidi soltanto con tre mesi di ritardo.

 

T: Un consiglio ad una new-entry che si affaccia in questo mondo?

R: Gli consiglierei di non fare il mio errore all’inizio, perché nonostante fosse difficile pubblicare ho fatto uscire comunque delle cose che anni dopo ho definito io stello delle “porcherie” ah!ah!ah! Quindi gli consiglierei vivamente di avere una forte autocritica nei suoi confronti e di pubblicare il pezzo soltanto quando realmente vale.

 

Teobaldo Bianchini

La destra nazionale

 

Chi vi scrive non è di destra.
Questo non significa che non possa dire la sua.

La destra

Giorgia Meloni è presidente del partito politico Fratelli d’Italia (FDI), una forza politica in crescita da anni e che, al momento in cui scrivo, secondo gli ultimi sondaggi, raccoglierebbe oltre il 10% dei voti alle elezioni nazionali.
È un partito di destra o di estrema destra, erede di Alleanza Nazionale (AN), cui segretario più importante fu Gianfranco Fini, erede a sua volta del Movimento Sociale Italiano (MSI), cui principale esponente fu Giorgio Almirante.

Il Movimento Sociale Italiano era un partito di destra/estrema destra attivo fino al 1994.
Nel 1994 il partito si sciolse e confluì in Alleanza Nazionale, segnando la svolta “democratica” definitiva del partito.WhatsApp Image 2020-05-01 at 18.07.39

Giorgia Meloni militò, negli anni liceali, in formazioni studentesche di destra e fu responsabile di Azione Giovani, l’organizzazione giovanile di Alleanza Nazionale. È presidente di Fratelli d’Italia dal 2014.

Essere una donna, nel panorama politico italiano, per le dinamiche storiche, sociali e politiche dell’Italia, non è affatto semplice. La politica, specialmente quella di rilevanza nazionale, è stata dominata dagli uomini per lunghissimo tempo.
Il suffragio femminile in Italia è storicamente datato al 1945 durante una riunione del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale.
Questo è solo uno dei dati che permettono di chiarire meglio la situazione. Cosa c’entra con la destra italiana? Ora ci arriviamo, tranquilli, abbiate un po’ di pazienza.

 

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La destra italiana e l’estrema destra in particolare hanno una visione conservatrice della famiglia.
Questo è un dato oggettivo, se intendiamo per “conservatore” chiunque si riconosca in un sistema di valori che individua nella tradizione e nella conservazione dell’esistente i pilastri del proprio pensiero politico.
In una visione conservatrice (attenzione: non sto facendo una critica, sto semplicemente analizzando e usando liberamente il mio pensiero) della società e della famiglia, il ruolo femminile ha limiti e confini ben precisi.

Tenendo conto che l’esperienza del regime politico fascista sia stata per lungo tempo un richiamo politico positivo per l’estrema destra italiana (e parte della destra stessa), tenendo conto anche che il fascismo abbia espresso un’impostazione delineata e ferrea del femminile, potremmo a ragione sentirci stupiti che il segretario di uno dei principali partiti della politica italiana (e un partito di destra o di estrema destra) sia una donna.

Dopotutto, è una donna anche Marine Le Pen, segretaria del partito di estrema destra Rassemblement National (RN).
Era una donna anche Margaret Thatcher, Primo Ministro britannico dal 1979 al 1990.

Questo però non ci deve ingannare.
Queste donne non rispecchiano né eccezioni alla regola né una contraddizione: sono semplicemente delle donne che, tramite militanza, impegno politico e carisma, sono giunte a ruoli preminenti nell’area politica nella quale si rispecchiano.
Il fatto che esse si rispecchino in un’area politica di destra (e siano riuscite ad emergere) non è né indice di una trasformazione conservatrice o nazionalista sul ruolo della donna, né frutto di machiavelliche misure di immagine.

Niente di tutto ciò: sono semplicemente delle persone che si rispecchiano in un determinato sistema di valori e di pensiero e che, coerentemente con tale sistema, militano e hanno un ruolo attivo nel mondo politico. Né Madonne, né puttane: donne e basta. 

 

Simbolo

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I tre partiti principali della destra sociale e dell’estrema destra italiana sono stati l’MSI, AN e FDI.
Ogni raggruppamento politico, parlamentare o extraparlamentare che sia, si è sempre riunito intorno a un simbolo. Un simbolo è caricato di significato, dà compattezza, dà un segnale ben identificabile ed associa potentemente un concetto a un’area politica.
La Statua della Libertà è un simbolo potentissimo del liberalismo statunitense (benché quello espresso in quello spaccato di secolo), così come la bandiera rossa è associata al socialismo e al comunismo.

Nel caso della destra sociale/estrema destra italiana, il simbolo principe è la fiamma tricolore.

Cosa indica ciò?
1) La fiamma è un simbolo di eredità fascista, a sua volta ispirato alla fiamma del Tempio di Vesta. Nell’antica Roma, si diceva che, finché la fiamma non si fosse spenta, Roma non sarebbe perita.
Potrebbe (ma non ne sono certo né intendo essere querelato, quindi il condizionale è d’obbligo) collegarsi anche ai roghi che gli squadristi fascisti organizzavano per bruciare quotidiani, opuscoli, libri o sezioni anti-fasciste nei primissimi anni ’20 del secolo scorso.

2) Il tricolore italiano è un richiamo esplicito al nazionalismo, altro tratto politico insito in FDI e nei due partiti cui raccoglie (almeno in parte) l’eredità.

Il nome stesso del partito, Fratelli d’Italia, rende lampante l’adesione ai valori del nazionalismo: quelle tre parole sono le prime dell’inno nazionale italiano.

Questa posizione non è molto lontana dalla dottrina sociale fascista, che eliminava il concetto marxista di “lotta di classe” e quello (anche) borghese di “classe” sostituendolo con il concetto della nazione.
Un bracciante, un operaio, un industriale, un commerciante erano tutti e quattro uniti nella medesima comunità, la nazione; non la nazione di matrice ottocentesca, bensì la nazione rinvigorita e rigenerata dalla rivoluzione fascista.

Programma politico

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Il programma che analizzerò, in alcuni punti, è quello dal sito del partito stesso.
È possibile che questo programma cambi prima di tornare alle urne.

IL MOVIMENTO DEI PATRIOTI IN 15 PRIORITÀ

 Movimento”, non “partito”: nell’immaginario collettivo italiano, dall’Unità ad oggi o, perlomeno, dall’Italia Repubblicana, il termine “partito” è stato associato ad una connotazione negativa del termine. Quando si pensa a “partito” si pensa a qualcosa di lontano, di oscuro, un luogo di potere lontano dalla popolazione. Ciò non vale ovviamente per tutti; c’è però una parte della popolazione che la pensa così: il partito che ha il maggior numero dei parlamentari, al momento, è il Movimento 5 Stelle.

Patrioti”: un richiamo ai valori nazionalisti e popolari-democristiani. “Dio, patria e famiglia” è la triade politica di riferimento per una buona parte della destra italiana in particolare e del conservatorismo mondiale in generale.

Priorità”, non “punti”: questo è il luogo più comunicativamente intenso fra i tre. Se difatti i primi due termini possono essere inseriti in categorie già sperimentate e conosciute, il fatto di sostituire “punto” con “priorità” indica un’attenzione decisiva e lontana dal linguaggio politico tradizionale.
È un termine che si riscontra in più campi semantici, da quello militare a quello burocratico

1- IL PIÙ IMPORTANTE PIANO DI SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE E ALLA NATALITÀ DELLA STORIA D’ITALIA 

Il partito crede in un’impostazione tradizionale, mono-nucleare ed etero-sessuale della famiglia.
Poiché da anni l’Italia è in crisi demografica, FDI propone come prima priorità del suo programma politico l’attenzione al rilancio alla natalità e alle famiglie.
Si legge peraltro “difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita.
Tradotto in termini ancora più comprensibili: “la famiglia naturale è quella formata da un uomo e da una donna, lottiamo contro coloro che desiderano distruggerla, siamo contro l’aborto”.

2- PRIMA L’ITALIA E PRIMA GLI ITALIANI

Lampante richiamo al nazionalismo e alla difesa della società tradizionale, attaccata dal multiculturalismo e dall’immigrazione, visti come fenomeni negativi all’interno della società italiana. Il punto prevede anche una ridiscussione totale dei trattati siglati con l’Unione Europea.

3- PRIORITÀ A SICUREZZA E LEGALITÀ

È una concreta adesione al valore principale dell’area di centro-destra: il valore dell’“ordine”.
Cosa sia o come sia esso espresso, non sta a me dirlo. Dentro questa priorità vi è anche la chiusura dei campi rom, una legge che dica che la difesa è sempre legittima e la revisione del reato di tortura.

4- CONTRASTO ALL’IMMIGRAZIONE IRREGOLARE E NO ALLO IUS SOLI

Leitmotiv della destra negli ultimi trent’anni: in difesa dei valori tradizionali, in una cornice di condivisione di un’identità nazionale legata a tratti etnico-linguistici, l’immigrazione è vista come una minaccia a quanto finora detto. Il programma prevede l’espulsione immediata di ogni immigrato clandestino e l’attivazione di test e requisiti nel limitare i flussi migratori.

5- TUTELA DELLA NOSTRA IDENTITÀ DAL PROCESSO DI ISLAMIZZAZIONE

“Contrasto al proselitismo integralista che alimenta il terrorismo e introduzione del reato di integralismo islamico. Albo degli imam e obbligo di sermoni in italiano. Nessun cedimento a chi vorrebbe eliminare i simboli della nostra tradizione cristiana, vietare il presepe o rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici”.
Da queste frasi si può vedere come il partito consideri l’Islam (e l’immigrazione di persone di fede musulmana in Italia) una minaccia all’integrità dell’identità nazionale.
In questo senso, il partito non è su una linea favorevole al multiculturalismo, bensì all’assimilazionismo.
Un altro elemento associato all’identità nazionale italiana è il cristianesimo: il partito quindi non è favorevole a una laicità di stato propriamente detta, bensì si considera difensore di quei tratti, anche religiosi, identificabili con la cultura della Penisola. Anche il punto seguente procede in questo senso:
“Tetto al numero massimo di alunni stranieri per classe e politiche di integrazione che non portino alla nascita di quartieri ghetto sul modello delle banlieue parigine”.

12- PER IL DIRITTO AL FUTURO DEI GIOVANI

“Promozione dei corretti stili di vita; lotta all’alcolismo, alla droga e ai trafficanti di sostanze stupefacenti”. Secondo solo all’ultimo punto del programma affrontato nell’articolo, storicamente questo è più di un richiamo a un “corretto stile di vita”: esso s’inserisce appieno nel tentativo di recupero del vigore e della bellezza fisica, un retaggio del fascismo italiano in nome di un maggior controllo sociale dello Stato sulla popolazione.

15- PER UN GOVERNO FORTE E ISTITUZIONI EFFICIENTI

Riforma presidenziale della Repubblica con elezione diretta del capo dello Stato o del Governo”.
Questo è un punto fondamentale per comprendere la proposta politica della destra sociale/estrema destra: una riforma in questo senso (unita al “superamento del bicameralismo perfetto”) implicherebbe una svolta presidenzialista del nostro sistema politico, passando dal parlamentarismo a bicameralismo perfetto (due camere che si equivalgono) a un presidenzialismo privo di bicameralismo perfetto (non è chiaro cosa indichi il superamento del bicameralismo perfetto).
È anche il punto che più si avvicina a quella concezione di uno stato “forte”, ossia uno stato in grado di mantenere l’ordine punendo e controllando maggiormente gli elementi sovversivi o dannosi dell’identità nazionale.
Per difendere l’identità nazionale, si richiede, coerentemente, un campo maggiore d’intervento da parte dello Stato: è in questa chiave di lettura che va letto quest’ultimo punto.

L’opinione

 

(N.B. questo video è stato scelto senza commento alcuno poiché è un tema oggettivamente presente e attinente a FDI)

Altri punti del programma mischiano elementi d’intervento statale nell’economia, soprattutto in ambito sociale (aggettivo assorbito in una ridefinizione linguistica da parte proprio di Meloni), ad elementi di liberismo.
Si propone una riduzione delle tasse ma un maggior intervento statale “negli ambiti non essenziali”.
Una de-regolazione di alcuni settori bilanciata da un più stretto controllo, anche normativo, su altri: una ricetta economica dove lo Stato s’impegna ad avere più presa ed impegno in campi ritenuti indispensabili, soprattutto a livello sociale, mentre dà più spazio all’iniziativa privata in altri settori. Non si comprende quindi se la ricetta economica debba volgere a un maggior intervento statale o a elementi liberisti. Un tentativo simile di “terza via” è già stato attuato ma non sta a me dirvi quando. Vi basterà sapere che c’è stato quasi un secolo fa, in Italia.
La proposta dell’abolizione del tetto all’uso del contante coesiste con la lotta alle mafie e alla criminalità, ma il tetto è stato imposto proprio per aiutare a limitare i due fenomeni: attuare entrambe le proposte è difficile.

Queste non sono sciocchezze: il programma politico, perlomeno in alcuni punti, non è oggettivamente coerente. Nell’esprimere ciò sto tentando, con mia grande fatica, di non giudicare negativamente un’area politica a me totalmente opposta. Sto tentando di comprenderla nei suoi tratti e nelle sue proposte, argomentando (per quanto mi è possibile) la mia opinione in merito.

Rimarco una seconda volta il concetto: io non sono, né mi sento, “di destra.
Non sono di destra perché non mi riconosco in quel sistema di valori né in quei punti sopra affrontati.
Il mio pensiero e la mia esperienza non condividono quei valori né quella narrativa.
In breve, quella visione del mondo non mi appartiene.
Ad esempio, ritengo che il multiculturalismo e il pluralismo siano valori da difendere e da diffondere, ho una visione diversa della società, della vita e della cultura.
Non credo che il libero mercato sia la soluzione, credo che un intervento statale nell’economia, perlomeno a favore dei più deboli, sia necessario.
Credo che le fasce sociali della popolazione debbano essere difese a prescindere dalla loro etnia o dalla lingua che parlano.
Trovo contraddittorio difendere gli emarginati esclusivamente italiani: gli emarginati sono anche gli immigrati, quelli che ad esempio raccolgono pomodori in Puglia sotto il sole. Loro sono i più deboli: generalmente non godono di buone condizioni economiche, sono indifesi, non sono visti di buon occhio e sono ben individuabili.
Dissento anche sulla difesa dei valori cristiani, perché non li sento miei. Sono un fiero sostenitore della laicità di stato, perché credo sia l’unica forma possibile che tuteli tutti, credenti e non credenti.
Mi sembra sbagliato legare il concetto di “patria” alla forza militare o alle forze dell’ordine e penso che nel mondo in cui viviamo il nazionalismo sia una risposta troppo semplice e passata per interpretare appieno il presente. Dissento su una narrativa di contrapposizione, giocata su chi è patriota e chi non lo è.
Non penso che la famiglia mono-nucleare sia la base della società: esistono tanti tipi di famiglia e non per forza gli altri sono sbagliati o corrotti.
L’aborto è una scelta difficile per una donna, ma è una scelta basata sulla sua condizione oggettiva: per me non è un omicidio e penso che lo Stato debba consentirlo (anche in forme più razionali della legge attuale) anche per evitare che le donne in gravidanza che desiderano avere un aborto si rechino da mammane o si buttino dalle scale.
Potrei andare avanti per molto ma non la finirei più e non per questo ho scritto quest’articolo.

Ci sono tanti, troppi punti che contrastano con la mia sensibilità e con il mio pensiero per trovarmi d’accordo anche limitatamente a qualcosa di quel programma e di quella area politica.
Certo è che non sarebbe neppure corretto tentare di comprendere chi non la pensi come me.

Detto ciò, non mi piacerebbe vedere Giorgia Meloni o il suo partito al governo perché non rispecchiano il mio pensiero.

 

Leonardo Mori

Emilia paranoica

“Emilia paranoica” è un singolo del gruppo italiano punk “CCCP- Fedeli alla Linea”, una formazione attiva principalmente negli anni ’80 che fondeva “punk filo-sovietico a musica melodica italiana”.

Nei tempi in cui vivo e sto scrivendo questo articolo, l’Italia e il mondo sono bloccati dalla pandemia.
Una pandemia che ci costringerà a rivedere molti dei tratti del mondo che conoscevamo e, finché non sarà trovata una cura o un vaccino, difficilmente rivedremo.
Una situazione simile (e non sto esprimendo nessun giudizio politico) ha sicuramente delle conseguenze a livello psicologico a livello collettivo e individuale.

Emilia A

Il freddo più pungente, accordi secchi e tesi
Segnalano il tuo ingresso nella mia memoria

Guardare al passato senza lasciarsi condizionare dal presente è impossibile.
Lo sanno gli storici, lo sanno tutte le persone dotate di senno, lo sa chiunque.
Essendo stato studente fuorisede a Bologna fino al luglio dell’anno scorso, conosco abbastanza bene la città felsinea. Bologna è parte dell’Emilia, benché sia differente dai tratti propriamente emiliani di città come Modena o Carpi. Nel momento in cui scrivo, l’Emilia Romagna è la terza regione italiana per numero di decessi e contagiati dalla pandemia che sta colpendo il mondo.

La canzone “Emilia paranoica” non è una traccia semplice: difficilmente orecchiabile, la melodia di sottofondo è aspra e ritmata in modo arcano.
Il testo è ciò che si salva sicuramente rispetto ai due tratti succitati.
Ora che tutto (o quasi) è bloccato, milioni di miei coetanei si trovano a fare i conti con se stessi e problemi che prima non c’erano; questi problemi hanno a che fare, principalmente, con disagio psicologico espresso su più piani. Si sta male, non si capisce davvero perché si stia male, non si sfugge all’introspezione. Impossibile non guardare dentro se stessi e riflettere, in mancanza di meglio. Dove si sta andando, come si può ingannare il tempo, quando sarà possibile rivedere qualcuno. Ci rivolgiamoad una forma di comunicazione a noi pratica: degli schermi.
Un telefonino, un televisore, un tablet o un computer.

Negli anni ’80, niente di tutto ciò.
Oggi come quaranta, trenta, venti e dieci anni fa chiunque sia passato dall’adolescenza all’età adulta ha comunque percepito, almeno una volta, un senso di noia, inutilità e disperazione.

Cosa puoi fare quando il mondo intorno a te va in frantumi, ti dà la nausea e ti senti stritolare dal sistema? Niente. Desisti.

Bukowski in “Pulp” ha scritto che alla fine la vita si riduce a trovare qualcosa da fare nell’attesa di morire. È stato il suo ultimo romanzo, poi è crepato.

Difficile combattere il tedio.
Puoi provare a riempirlo col sesso, per poi scoprire che una relazione e un rapporto sessuale assumano tratti tali da sfuggire alla letteratura. Sesso e vita sono forse le uniche due esperienze umane non pienamente trattabili.
Si scrive solo da vivi (da morti non si può farlo). Mentre scrivi, non vivi né fai sesso.
D’accordo, c’è chi ha battuto a macchina mentre faceva sporcizie ma è un’esperienza che non consiglierei a nessuno (troppo difficile non ritrovarsi dei lividi).
Questa canzone ritrae due tempi: gli anni ’80 e tutto ciò che c’è dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Dipinge la noia di una generazione e di tutte le generazioni seguenti.
Punto di svolta: si scopre la noia, si scopre la vuotezza delle giovani generazioni.
Non importa che tu sia in Emilia o ad Agrigento: la noia c’è sempre, il tempo ti consuma, tentare di sfuggire a questa verità è inutile. La vita ti sfugge via fra le mani e il tempo scorre.

Emilia B

Consumami distruggimi è un po’ che non mi annoio-oh-oh-oh-oh-oh

Da un punto di vista puramente logico, camminare di notte per la Via Emilia imbottito di sostanze stupefacenti e con lo stomaco che brontola equivale ad andare a correre in un parco.
Qui non si discorre di semantica: qui si discorre di logica.
Caduto il criterio dell’utile e cancellato ogni significato, rimane la noia e la nausea.

Niente Brescello: Don Camillo e Peppone sono morti da quel dì. E comunque Giovannino Guareschi tutto era fuorché comunista. Per chi non lo sapesse, il nome del gruppo “CCCP” (si legge proprio “ci-ci-ci-pi”) ricalca i caratteri cirillici dell’Unione Sovietica (“CCCP” in cirillico è traslitterato come “SSSR” nel nostro alfabeto).
Era quindi solo la noia e l’inutilità di giovani di sinistra o di estrema sinistra negli anni ’80?
Banale e riduttivo pensare così.

Il sottofondo del basso e della drum-machine ricalca una noia, un disgusto e un senso di inutilità che appartengono a chiunque. È l’urlo paranoico di una regione amministrata storicamente dal centro-sinistra, una regione dove la qualità della vita è molto alta da decenni e dove il contenuto politico e umano sono intrecciati.
Mai sentito parlare di “Bologna la rossa”? Ecco, l’Emilia è (ma meglio dire era) ancora più rossa.

Emilia C.jpg

Emilia paranoica, Emilia paranoica, Emilia paranoica, PA-RA-NOI-CA, PA-RA-NOI-CA, PA-RA-NOI-CA

Un senso di soffocamento, come la stanza che ti crolla addosso quando il Roipnol fa effetto e hai sbagliato la dose.
Diavoletti che ti graffiano con i loro artigli e ti lacerano la schiena con i tridenti.
Viene da vomitare, non ce la fai.
Vomitare darebbe significato e il tuo corpo si rifiuta di espellere il male. Quindi reprimi un conato di vomito, butti giù e ti vengono le lacrime per il dolore.
Cammini per città che non riconosci più, dove estranei vivono a contatto senza conoscersi nello stesso luogo.
Inghiottito dal tempo, inghiottito dalla mancanza di cose da fare, schiacciato da progetti incompiuti, perduto per vie sconosciute.

I CCCP si sono sciolti da tempo.
La loro rabbia non resta, è passata ed archiviata in un tempo da me e dai miei coetanei non vissuto.

Frantumatosi lo specchio dei valori, scivolare nei piaceri è solo una distrazione.
Timore e paranoia restano sotto traccia, si battono e possono essere sconfitte.
La noia… quella sì che resiste.

Leonardo Mori

Intervista a El Manuelito

INTERVISTA A EL MANUELITO

T: Manuel Pagnini detto El Manuelito classe ’97 vincitore della terza selezione della jam For Grow 2018 e finalista dell’edizione finale della stessa jam. Rapper che fa il suo esordio musicale con “Macedonia ep” raggiungendo oltre 20mila ascolti tra YouTube e Spotify in meno di un mese.

Tra tutti quelli intervistati fino ad ora forse tu sei il più moderno, un rapper dell’ultima generazione potremmo dire. Come ti sei affacciato quindi a questa scena?

M: Beh ti dico, io prima dei tredici/quattordici anni non sapevo niente di rap… forse anche fino a 15. Poi con i vari eventi che si sono sviluppati a Pesaro ho iniziato a sentire le prime battle e mi hanno gasato troppo! Parole a caso che però avevano un senso, punch, metrica… geniale! Quindi ho deciso di entrare nel giro ed ho iniziato come freestyler, perché era quello che mi appassionava, non il rap in sé e per sé. Ad un certo punto però è arrivato Fibra, le sue canzoni mi sono piaciute a tal punto che ho deciso di scrivere anche io iniziando a ricercare altri rapper che potessero sia incoraggiarmi che indirizzarmi da un punto di vista musicale come ad esempio nel caso di Lazza e Nait perché mi sono rivisto nel loro stile tra il cantato ed melodico che secondo me rappresenta al meglio la mia natura musicale, il mio genere.

 

T: Cos’è invece che ti ha spinto a fare rap?

M: Ti dico le cose più importanti. La prima essenzialmente è che mi piace e vorrei farne un lavoro perché in quel caso per me sarebbe divertirsi e non lavorare, il secondo è economico… siamo onesti, se devo cantare in cameretta evito di pubblicare cose per cui vorrei anche un ritorno economico. Più che per me lo vorrei però per una soddisfazione personale, così potrei mostrare ai miei che non sono solo un fattone ma che faccio questo per un motivo, che ci credo e che vengo ricambiato per questo!

 

T: Siccome sei appunto il primo rapper della newschool che intervistiamo, secondo te è giusto distinguere tra rap e trap?

M: La distinzione in realtà per me c’è e non c’è. Il rap è lo stile da cui nasce, la base, quindi è ovvio che se dovessi parlare di rap come deve essere, nella sua purezza, ti parlerei di quello da Fibra o Claver Gold. Poi però già se parliamo di Caparezza si va a parlare di un genere che non è definibile in realtà, perché secondo me lo ha inventato lui stesso. Quindi se dovessi distinguerli direi che il rap è l’old school che tutti conosciamo mentre la trap è la sua innovazione. Qualcosa che non c’era prima e che ora c’è, poi può piacere o non piacere ma per me è una visione moderna del rap con beat e metriche più attuali, non si punta più sul dire qualcosa e portare un contenuto con la stessa intensità di prima magari, però si presta più attenzione a metrica e flow.

 

T: In freestyle invece? Mi dicono che te la cavi.

M: Sì dai, così dicono ah!ah!ah! Magari più ai tempi d’oro che oggi dove penso di aver perso un po’ la mano. Inizialmente mi hanno conosciuto così, anche perché facevo solo quello. Non scrivevo niente, anzi il mio sogno era solo di fare freestyle.

Sicuramente devo riconoscere che per quello che faccio oggi ha rappresentato però un grandissimo aiuto a livello di scrittura perché ti si apre la mente molto più rispetto a chi rappa e non lo fa. Ciò non vuol dire che chi non lo fa non migliora ma almeno per me è così, inoltre ti dà la possibilità di esprimere ciò che pensi e provi nello stesso momento.

 

T: Per quanto riguarda i testi invece hai iniziato con “È finita l’estate” che è stato il testo con il quale hai iniziato a vivere la scena e poi mesi dopo sei uscito a San Valentino con “Macedonia ep” tra cui “Ti volevo dire”che ha spopolato in maniera incredibile, ha superato 12mila ascolti su Spotify, cosa ne pensi di ciò? Di questo salto in avanti quasi improvviso forse?

M: Mah guarda, penso che la canzone abbia fatto il botto perché anche se non sono di quel mood sono riuscito a rivedermi lo stesso molto e infatti adesso sto cercando di unire quello stile lì con la trap anche se è difficile. Però mi ha comunque dato una bella spinta verso la mia strada musicale. Quello che penso è che sicuramente bisogna farsi vedere più che come rapper anche come una brava persona e penso che la gente l’abbia capito con “Ti volevo dire”. Lo noto, le mie canzoni mi hanno dato una grande mano e le persone ora che conoscono il mio carattere mi appoggiano molto di più, quindi penso che il successo sia dovuto anche al supporto che mi hanno dato tutti loro sia di persona che sui social.

Poi comunque i numeri significano fino ad un certo punto, è solo una motivazione che mi dice di continuare a farlo perché ce la posso fare ed è soltanto l’inizio .

Non ho avuto poi così tante visualizzazioni se confrontato ai grandi numeri della scena rap anche solo italiana, ma per me sono veramente tante rispetto a quello che mi aspettavo e quindi mi spronano a continuare.

 

T: Un album invece quando?

M: Eh bella domanda, sicuramente lo farò ma più avanti. Per ora vorrei andare solo di singoli per poi uscire con un album perché in questo momento comunque ancora non sono nessuno ed ho notato che se fai un ep o un album alla fine si risalta solo il pezzo migliore tra tutti, quindi ho paura che sbattendomi per sette canzoni ne venga vista solo una che magari è veramente la più bella, però rischia poi di sminuire le altre.

Quindi volevo continuare ad attirare l’attenzione con i singoli e poi uscire con un album.

Ne ho già uno pronto, in realtà due. Uno molto trap mentre il secondo mantiene lo stile di “Ti volevo dire”. È solo questione di tempo.

 

T: Invece un parere sugli emergenti già noti? Chi preferisci e perché?

M: Beh tra tutti direi sicuramente Mattak perché riesce a fare tutto, dal rap alla trap, e lo fa benissimo! Metricamente è un mostro, un fenomeno. Per me è indiscutibile. Un altro poi che seguo da poco ma che ho iniziato a seguire intensamente è Leon Faun che fa qualcosa di simile a me ovvero trap mischiata con il melodico e quindi lo sto considerando sempre più ultimamente.

Poi vabbè Supreme ma non è un emergente, lui non fa, lui è la trap.

 

T: Bene, ora siamo giunti alle tre solite domande prima dei saluti. Partiamo subito… Rapper e canzone preferiti

M: Allora questa è dura, è sempre stato Fibra per me ma in ‘sto momento Dani Five è il mood che più mi piace ed io vado molto a periodi, per cui ora ti dico lui, ma domani potrei già cambiare idea ah!ah!ah! La mia canzone preferita è ancora più difficile, ce ne sono tante, adesso addirittura sto finendo ad innamorarmi delle canzoni spagnole quindi sono davvero indeciso… se te ne devo dire una ti direi una canzone di Shiva “Ragazzi Miei” oppure “La città”di Mostro ma anche “m12ano” di Supreme e Mara Sattei… ah!ah! ah! Mi dispiace ma una sola proprio non riesco! È impossibile!

 

T: Passiamo alla prossima allora, con chi faresti un feat? Puoi dirmene uno impossibile e uno italiano…

M: Mmmm… impossibile farei un feat con Ed Sheeran perché melodicamente è fantastico, canta in maniera assurda e per me sarebbe un onore o vabbè… andrebbe bene anche Supreme perché è un esempio per me. A 20 anni avere il successo che ha avuto e aver rinnovato la trap in Italia… cioè, puoi solo fargli un applauso e complimentarti.

Italiano invece con Fibra… assolutamente! Perché non sono solo cresciuto con lui ma mi ha fatto anche crescere. È il sogno della vita. Uno più fattibile sennò sarebbe Frah Quintale magari che è quello con il flow più simile al mio.

 

T: Invece cosa consiglieresti a chi inizia adesso?

M: Gli consiglierei quello che forse consiglierebbe ogni rapper ad un emergente… sii te stesso! Non farti influenzare da amici o da chi ti dice che non gli piace quello che fai. Perché se piace a te e sei convinto di quello che fai, una volta che non sei influenzato da nessuno vedrai che prima o poi alla fine piacerà a tutti. Se lo fai insomma lo devi fare perché ti piace, punto e basta!

 

Teobaldo Bianchini